Paul Verlaine e l’Assenzio

Letteratura e Arte

“Le pauvre Lélian”

Paul Verlaine by Dornac (1892)Nato a Metz nel 1844, ebbe un’infanzia che lui stesso ha definito “gioiosa” (Bonheur). Coccolato e viziato da una madre troppo indulgente e da una cugina orfana, doveva trovare duro il primo contatto con le difficoltà della vita. Suo padre, un militare, andò in pensione nel 1851, e la famiglia si sistemò a Parigi.

Dopo aver compiuto dei mediocri studi secondari, Verlaine trova un impiego in Municipio. Burocrate depravato e già ubriacone, non ha perduto quella sensibilità femminea che lo destina a “una tetra serie di avvenimenti contraddittori” (Confessions).

Lettore di opere oscene, frequenta anche i poeti “artisti” e collabora al primo Parnasse. La morte di suo padre (1865) e soprattutto quella di sua cugina Elisa (1867) lo lasciano disorientato, eppure egli mette in subbuglio il vicinato picchiando sua madre nel 1869.

 

Forse per un sogno compensatorio, il “sogno familiare” dei Poèmes saturniens”, si induce a sposare l’11 agosto 1870 una ragazza di 16 anni, sorellastra del suo amico Charles de Sivry, Mathilde Mauté. “Oh! Mi piacciono molto i poeti, Signore”: queste prime parole di Mathilde a Verlaine indicano abbastanza bene su quale malinteso si sarebbe basata la loro breve unione.

Per abbandonare questo “at home obeso” e la “Princesse Souris” ci voleva Rimbaud. Accolto in casa Verlaine nel settembre 1871, oggetto di scandalo per la famiglia e per gli amici, abbandonato e poi riaccolto, “il più bello tra tutti gli angeli malvagi” non trascinò soltanto Verlaine in Belgio e poi in Inghilterra per vendicarsi di Mathilde, ma per rendere il suo debole compagno “allo stato di figlio del sole”. Per un nuovo malinteso, Verlaine vide nell’avventura soltanto “il romanzo di una vita a due uomini”, l’occasione per soddisfare al tempo stesso se sue passioni e delle aspirazioni sentimentali che, deluse in famiglia, lo furono altrettanto nella stanza d’affitto londinese.

Quando nel luglio del 1873, Verlaine viene imprigionato a Bruxelles e poi a Mons, per quasi due anni, tutto crolla: Rimbaud è partito, Mathilde ha chiesto e ottenuto la separazione, il Parnasse esclude il suo antico collaboratore. L’ex-comunardo, il pederasta suscita dovunque diffidenza e riprovazione.

In prigione, Verlaine non poteva restare insensibile al “cielo così azzurro, così calmo”, al pulviscolo sul raggio di sole che penetra da qualche buco, al rintocco di una campana, a tutti i simboli di una speranza che cercherà come sostegno la “saggezza” attinta dalla conversione. Questo ritorno alla fede è forse più sognato che vissuto, ma permette e Verlaine di tentare di risalire la china dopo la sua uscita dalla prigione. Agricoltore nel nord della Francia, professore in Inghilterra, a Stickney e a Bournemouth, conduce una vita corretta e ordinata. Nel 1877 i demoni ricompaiono: perde il posto di insegnante nel convitto Notre-Dame de Rethel perché ha ricominciato a bere; s’innamora – forse platonicamente – di un suo allievo, Lucien Létinois e lo porta con sé in Inghilterra, come aveva fatto un tempo con Rimbaud. Ma il fallimento è in agguato: la sua impresa agricola fallisce nel 1882: il suo protetto, Lucien Létinois viene ucciso dalla tifoide nel 1883; i suoi sforzi per riavere il posto in municipio restano vani.

Tra il 1883 e il 1885 Verlaine va alla deriva: ha ricomprato una piccola fattoria nel Nord, ma solo per nascondervi la sua ubriachezza e i “monelli dagli occhi da tribadi” che fa venire da Parigi; viene arrestato e imprigionato per aver picchiato sua madre, che muore miserevolmente nel 1886. Anche lui è ammalato, senza un soldo (i Mauté gli hanno strappato la sua piccola eredità). Vaga da ospedale a ospedale, da tugurio a tugurio, passando da Philomène Boudin a Eugèie Kranz, due donne di scarsa virtù, o meglio due “Eumenidi” che lo sfruttano una dopo l’altra. Verlaine conosce infatti ormai la celebrità, e non si esita a dargli dei sostanziosi onorari per le sue conferenze. Crolla nella gelida stanza di Eugénie Kranz, nel gennaio 1896, ma il ministro delle Arti si farà rappresentare al suo funerale e Barrès pronuncerà un discorso sulla sua tomba.

 

Verlaine e l’assenzio (di P.Baker)

L’assenzio torna nuovamente alla ribalta con Paul Verline, la figura che ha maggiormente contribuito a farne un culto bohémien, malgrado gli effetti fin troppo visibili che ha avuto su di lui. Molti considerano Verlaine un uomo dalla doppia personalità: da una parte la sua raffinata poesia – intenzionalmente astratta, mirabilmente suggestiva anche se impossibile da decifrare, evocativa di evanescenti panorami emotivi – dall’altra l’orrore imbevuto di assenzio della sua vita, che fu davvero sconvolgente. Verlaine usò più volte violenza nei confronti della moglie e in un’occasione provò persino a darle fuoco. Sparò e ferì gravemente Rimbaud con una rivoltella, più di una volta si scagliò contro la madre settantacinquenne, arrivando a minacciarla con un coltello per farsi dare dei soldi. In là con gli anni si pentì dei suoi trascorsi, e imputò i propri eccessi all’assenzio.
Per molto tempo l’assenzio fu parte a sé stante dell’identità di Verlaine. Un giorno nella stazione belga di Gent il commediografo Maurice Maeterlinck vide passare un treno con un folle a bordo:

“il treno da Bruxelles si fermò nella stazione quasi deserta. Con gran clamore si aprì un finestrino in uno scompartimento di terza classe e apparve la faccia faunesca del vecchio poeta. “Ci voglio lo zucchero!”, gridava. A quanto pare era il suo saluto abituale quando era in viaggio: una sorta di grido di battaglia o parola d’ordine che significava che voleva lo zucchero nell’assenzio.”

Verlaine era figlio unico e i genitori stravedevano per lui. La madre era riuscita ad averlo dopo una serie di aborti spontanei, e conservava i feti abortiti in barattoli che teneva in casa […]. Una notte dopo una furibonda lite Verlaine le fracassò i barattoli. Era piuttosto brutto e fin da adolescente si rese tristemente conto di non esercitare un grande fascino sulle donne. Un insegnante lo ricordava come un “orrendo babbeo con l’aspetto di un delinquente incallito”, e un’amica della madre era atterrita alla sola idea di incontrarlo, perché pensava che somigliasse a “un orango cappato dal Jardin del Plantes”.

La debolezza di Verlaine nei confronti dell’alcol si mostrò precocemente: frequentava la libreria di Lemerre in Passage Choiseul, un portico parigino, e Lemerre ricordava come non si allontanasse mai dal negozio “senza fare una pausa nel piccolo caffè in fondo al Passage. Lì qualche volta beveva più di un assenzio, e molto spesso Francois Coppée aveva seri problemi a trascinarlo via”. A Verlaine non piaceva essere trascinato via. Un altro amico di vecchia data, Edmond Lepellletier, camminava con lui per Bois de Boulogne dopo una notte passata a bere, quando Verlaine volle tornare al Pré-Catelan per un altro bicchiere. Lepelletier provò a dissuaderlo, ma Verlaine perse completamente il controllo, sguainò il suo bastone da stocco e lo rincorse con l’intenzione di ucciderlo.

Una lunga sequela di lutti – padre, zia preferita, cugina più cara – peggiorò la dipendenza dall’alcool di Verlaine. “Mi rifugiai nell’assenzio, “ scrisse in seguito “assenzio notte e giorno.” Il matrimonio sembrò avere un effetto stabilizzante per un anno o due, ma la situazione era già compromessa quando accadde l’irreparabile nel 1871: Verlaine incontrò Arthur Rimbaud, poeta adolescente per il quale perse la testa a tal punto di mandare all’aria il proprio matrimonio. Rimbaud gli regalò alcuni dei momenti più belli e più brutti della sua vita. A distanza di tempo, dopo la morte di Rimbaud, un giornalista ben disposto lo incoraggiò a ricordare l’episodio dello sparo. Certamente Verlaine sarà stato sollevato di averlo solo ferito? “No,” disse “ero così furioso all’idea di perderlo che avrei preferito fosse morto…quel ragazzo aveva diabolici poteri di seduzione. La memoria dei giorni trascorsi a vagabondare per le strade deliranti ed ebbri di arte, mi torna alla mente come un’onda carica dei profumi di una gioia terribile..”
Nel 1872 Verlaine e Rimbaud andarono a Londra, dove affittarono una stanza in Howland Street, dietro Tottenham Court Road (ora un’area desolata piena di edifici istituzionali; nulla rimane della casa del XVIII secolo dove intorno al 1930 era stata affissa una targa commemorativa).
Verlaine inviò le proprie impressioni su Londra a Lepelletier. Le cose erano un po’ diverse rispetto a Parigi: “ ‘Non abbiamo alcol’ ha risposto una cameriera alla quale ho presentato l’insidiosa richiesta: ‘Un assenzio, per favore, mademoiselle.’” Ma a un certo punto scoprì Soho e un caffè francese a Leicester Square, dove un giorno incontrò il suo discepolo Dowson e insieme andarono al Crown.

Rimbaud ruppe con Verlaine nel 1873, e questa circostanza portò all’episodio dello sparo. Verlaine esplose due o tre colpi prendendo Rimbaud a un polso. In quel momento erano a Bruxelles e il ferito volle tornare a Parigi, così Verlaine e la sua paziente madre lo accompagnarono alla stazione. Qui Verlaine, che avva ancora con sé la rivoltella, si agitò tanto che Rimbaud chiamò la polizia. Inizialmente Verlaine fu accusato di tentato omicidio, in seguito ridotto ad aggressione, ma i veri problemi arrivarono con la rivelazione del loro rapporto. Verlaine finì in carcere. Gli fece bene, se non altro perché smise di ubriacarsi e giurò di non toccare più un goccio di assenzio. Passò la maggior parte del tempo in isolamento e si riavvicinò al cattolicesimo. Uscito di prigione incontrò un’ultima volta Rimbaud, che lo spinse a bestemmiare facendo nuovamente sanguinare le novantotto ferite di Cristo, per utilizzare le parole dello stesso Rimbaud. Verlaine assalì Rimbaud, che si difese fino a lasciarlo lì privo di sensi; la mattina dopo fu trovato da alcuni contadini.
In seguito Verlaine si adattò a fare l’insegnante. Forse, essendo un pederasta alcolizzato, non era esattamente il maestro ideale, ma in realtà se la cavò piuttosto bene. Il periodo trascorso a insegnare francese nell’Inghilterra del nord e a Bournemouth fu uno dei più tranquilli ed equilibrati della sua vita. Le cose cominciarono a peggiorare quando tornò in Francia per insegnare inglese – che tra l’altro non parlava bene – al College Notre Dame de Rethel. Iniziò una storia con un allievo, Lucien Letenois (a quanto pare gli ricordava Rimbaud) e riprese pure a bere. Insegnava meglio di mattina. Un alunno ricordava come, dopo la fine delle lezioni della mattina, alle 10:30, scappasse in città per cercare rifugio in un piccolo bar, dove “beveva tanto assenzio da non riuscire a tornare a scuola senza aiuto”. Avrebbe potuto essere un’ottima risorsa per una scuola interessata a corsi di depravazione morale, ma naturalmente il preside fu costretto a mandarlo via. In questo periodo scrisse a Mallarmé della sua miserabile vita (“Ogni felicità, a parte quella di Dio, mi è negata…”) concludendo la lettera in inglese: “per favore, scrivi ogni tanto al tuo riconoscente amico, VERLAINE.” Con un bicchiere di assenzio davanti, continuò con un post scriptum: “Di fretta, nei miei viaggi, mi ritrovo in una taverna…ancora addolcito, confuso. Preoccupatissimo. Perdona gli orrori…”

Da quel momento in poi abbandonò ogni illusione di rispettabilità. Passò un altro mese in carcere per aver minacciato la madre con un coltello, malgrado lei lo avesse difeso in tribunale: in fondo, era un bravo ragazzo. Si dedicò anima e corpo alla vita dei caffè, diventando una celebrità nel Quartiere Latino. La sua reputazione come poeta era intatta – alla polizia fu ordinato di non disturbarlo, qualunque cosa facesse – ma la sua salute iniziò a risentirne. Aveva spesso l’aria di un vagabondo e sembrava più vecchio di quanto non fosse , soffriva di diabete, cirrosi epatica, problemi cardiaci, sifilide, erisipela e dolori alle gambe. Un testimone dell’epoca, Louis Roseyre, rimase scioccato dalla trasandatezza del suo aspetto, la barba e la sciarpa sudice, perennemente ubriaco e circondato da scrocconi. Era spesso accompagnato dal suo “segretario”, una specie di buffone chiamato Bibi-la-Purée, un eccentrico senzatetto con un cappello a cilindro e un enorme bouquet sul cencioso cappotto da cerimonia. Bibi coronò la sua mediocre carriera al funerale di Verlaine, dove rubò gli ombrelli di tutti i partecipanti.

Lo scrittore inglese Edmund Gosse ha lasciato una descrizione più benevola di Verlaine in questo periodo, pubblicata sul “Savoy” nel 1896 con il titolo “Verlaine a prima vista”. Gosse era andato a Parigi tre anni prima sulle tracce dei poeti simbolisti, paragonandosi a un uomo alla ricerca di farfalle rare in una giungla. “Venni a sapere che c’erano ritrovi in cui questi tardi decadenti potevano essere osservati in gran numero,” scrive, e così “decisi di bazzicare quei paraggi con un retino per farfalle e vedere quali delicate creature dalle ali polverose potevo catturare. E soprattutto ero in cerca del più immenso lepidottero, della falena gigante, di Paul Verlaine, che srotolava la sua proboscide nelle corolle stesse dell’assenzio.”
Il safari portò Gosse a boulevard St. Michel, noioso di giorno ma “fin troppo vivace e animato di notte”; “per l’entomologo la parte orientale di questa strada rappresenta l’habitat principale, anzi praticamente l’unico, del poeta symbolans, il quale in effetti si riversa qui a frotte” (è un po’, dice, come le cioccolaterie londinesi del XVIII secolo, “dove cioccolata e ratafìa, suppongo occupavano il posto dell’assenzio”).

Dopo tre giorni di paziente ricerca riesce a incontrare Verlaine che a quanto pare , si comporta molto educatamente. Non sembrava un vagabondo, aveva un abito scuro nuovo di zecca e una camicia bianca, anch’essa nuova, di cui andava molto fiero, mostrò a Gosse pure i polsini. Parlò con “vice indistinta” e debole delle bellezze di Bruges, in particolare dei vecchi merletti che vi si potevano ammirare, prima di recitare il suo Claire de Lune. Sembra che Verlaine abbia sempre dato il meglio di sé davanti a Gosse. Quando si incontrarono a Londra non fu meno cordiale. Gosse lo paragonò a un filosofo cinese: “Cinese, passi, replicò Verlaine “ma filosofo no di certo!”

Verlaine faceva la fortuna dei caffè che frequentava, soprattutto del Café Francois, dove un artista belga di nome Henry de Groux lo vide nel 1893: “Aveva il suo solito sorriso furbo ed esagerato…era ancora sobrio e davanti a lui c’era uno splendido verte.” Si inizia a confonderlo col Verlaine del mito, il Verlaine che Bergen Applegate idealizzava in Verlaine: His Absinthe-tinted Song: “sembra uscito dalle pagine di Petronio – una creatura vaga e indefinita, per metà bestia e per metà uomo – un autentico satiro…”
“1893. Un caffè seminterrato, place St. Michel, Parigi. L’aria è nauseabonda per il fumo di tabacco mischiato all’odore acre e pungente dell’assenzio. La luce fioca e purpurea diffusa dai becchi a gas delle pareti, mescolata al bagliore più rosso di un’enorme lampada a olio appesa sopra il gruppo, getta nel suo bicchiere raggi di iridescente splendore. Un po’ curiosi , un po’ indagatori, i suoi ardenti occhi infossati scrutano il verdeggiante liquido opalino. Lo sguardo è quello di un uomo niente affatto certo della propria identità – lo sguardo fisso di un sonnambulo, con l’espressione perplessa del risveglio. E ne aveva ben donde, perché nel calice del diavolo aveva versato tutta la sua giovinezza, la sua fortuna, il suo talento, la sua felicità, tutta la sua vita.”

[…] Verlaine era consapevole della sua cattiva reputazione. A volte era provocatorio: “Ormai da tempo sono considerato un autentico mostro…Non conosco nessuno degno di nota che non sia stato circondato dalla stessa aurea, al contrario.” Altre volte invece si metteva sulla difensiva: “Mi sono rovinato la vita e so bene che tutta la colpa ricadrà su di me. Al riguardo posso solo dire di essere nato sotto l’influenza di Saturno…” Quando era più contrito incolpava l’assenzio, già ricordato alla fine della poesia dedicata a Francois Coppée:

"Moi, ma gloire n’est qu’une humble absinthe éphémère

Prise en catimini, crainte des trahisons,

Et, si je n’en bois pas plus, c’est pour des raisons."

 

Nelle Confessioni del 1895 si pentì fino in fondo della sua dipendenza dall’assenzio, tratteggiando un memorabile schizzo delle sue prime bevute:

[…]
Lo ripeto a mia vergogna, avrò più avanti da raccontare molte e ben altre assurdità (e peggio), dovute a questo abuso di questa cosa orribile, il bere, e di ciò che è nel bere, questo abuso in sé stesso, fonte di follia e di delitti, di idiozie e di vergogna, che i governi dovrebbero se non abolire (e in fondo perché no?) almeno gravare terribilmente di tasse e imposte: l’assenzio!

 



A FRANCOIS COPPEE
Les passages Choiseul aux odeurs de jadis.
Oranges, parchemins rares, — et les gantières !
Et nos « débuts ‘ ». et nos verves primesautières,
De ce Soixante-sept à ce Soixante-dix.
Où sont-ils? Mais où sont aussi les tout petits
Événements et les catastrophes altières,
Et le temps où Sarcey signait S. de Suttières,
N’étant encore pas mort de la mort d’Athys ?
Or vous, mon cher Coppée, au sein du bon Lemerre
Comme au sein d”Abraham les justes d’autrefois,
Vous goûtez l’immortalité sur des pavois.
Moi, ma gloire n’est qu’une humble absinthe éphémère
Prise en catimini, crainte des trahisons,
Et si je n’en bois pas plus c’est pour des raisons.
(in Dédicaces)

 



BALLADE EN FAVEUR DE LÉON VANIER ET Cie
Ce que j’aime, Dieu seul le sait.
Autant que le diable l’ignore…
J’aime d’abord ce qui me fait
Plaisir, — puis ce qui presque encore
(Telles, pilules que l’on dore)
Me fait mal, peine, doute ou peur.
Mais, mes amis, ce que j’adore
Surtout, ce sont mes éditeurs.
J’aime la femme, — un fait, ce l’est
Indubitable, — comm’ j’abhorre
(Avec apocope) le laid !
J’aime l’absinthe bicolore:
Verte et blanche, autant que j’honore
De loin l’eau pure et ses horreurs.
Mais ce qui vaut un : «Ah ! » sonore
Surtout, ce sont mes éditeurs.
Ils sont charmants, doux comme lait.
Luisants comm’ louis qui se dore
(Avec apocope) et qui plaît
À tout le monde. Un los s’essore,
Et l’envieux que l’envi’ fore
(Avec apocop’) — ses fureurs ! —
(Avec idem) crèv’ comm’ pécore ;
Mais, au fond, viv’nt mes éditeurs !
ENVOI
Du Kohinnor et de Lahore
Princes trop grands, mais peu donneurs.
C’est vers vous que je m’édulcore.
Mes chers, mes tendres éditeurs.

(in Invectives)

 



AUTRE MAGISTRAT
Je veux, pour proclamer dignement ses louanges,
M’aider du sistre d’or ainsi que font les anges
Célébrant le Seigneur,
Et, poète sans frein, plein d’un noble délire,
Chanter, m’accompagnant aux cordes de la lyre.
Une ode en son honneur.
Car il est grand, malgré son nom. Vastes contrastes
Grand, Petit. Et je veux choisir entre ses fastes
Un haut fait de renom…
C’était voilà longtemps, environ quatre lustres.
Deux voyageurs alors, ni l’un ni l’autre illustres.
Riches, je crois que non,
S’arrêtèrent dans un buffet dans une gare,
Et ma foi, las et soûls de toute la bagarre
D’un train â bon marché.
Burent sans trop compter, marcs, rhums, bitters, absinthes.
Et dame ! leur langage en paroles peu saintes
S’était, las ! épanché,
Quand des gendarmes, représentant la morale.
Empoignèrent les imprudents, et, sépulcrale
Leur voix hurla : «Allaiz ! »
Ils allèrent jusqu’au superbe hôtel de ville
De la ville (beffroi superbe et de quel style !)
Qui servait de palais.
(in Invectives)

Eros
Eros