L’Italia della Belle Époque è stata legata all’absinthe più che per la produzione nazionale di distillati (assai limitata e della quale ad oggi abbiamo reperito scarse e superficiali informazioni), per la produzione artistica di alcuni suoi esegeti come Amedeo Modigliani o l’ingiustamente dimenticato Emilio Praga, rappresentante della scapigliatura milanese, entrambi noti consumatori d’Absinthe (glisso volontariamente su D’Annunzio che mi pare ne consumasse solo per moda).
Anche il nascente design pubblicitario nella sua parte più dinamica ed innovativa, quello direttamente sgorgato dalle mani -e dal bicchiere- di Henri de Toulouse-Lautrec, ha avuto in Italia un rappresentante non di secondo piano nella scena internazionale, stiamo parlando del Livornese -come Modigliani, tra l’altro- Leonetto Cappiello che, nel suo primo periodo parigino, dal genio di Albì riprende alcuni motivi stilistici evidenti per poi man mano trovare uno stile più personale.
Cappiello nasce nel 1875 -quindi nel pieno fervore della Fée Verte- a Livorno da famiglia agiata e si avvicina alla pittura da autodidatta, si accosta ad alcune avanguardie del suo tempo come il secessionismo viennese e l’impressionismo.
Nel 1898, trasferitosi a Parigi presso il fratello, si rapporta con la scena artistica locale e dopo due anni di vita parigina si accosta al cartellonismo pubblicitario; è proprio in questo periodo che realizza la sua prima commissione legata al mondo dell’Absinthe con il manifesto del Ducros Fils (1901, litografia).
L’immagine, dominata dai toni del rosso, colore dell’eccitazione sensoriale per eccellenza e che troviamo nel vestito e nei capelli biondo rossicci della ragazza che impugna la bottiglia è fortemente dinamica, e richiama direttamente l’effervescenza delle nottate parigine del tempo (per lo meno della Parigi di copertina), con un evidente riferimento alle innovazioni stilistiche portate da Lautrec, la cui influenza si può notare anche nel soggetto rappresentato, una donna presa nell’estasi voluttuosa e vorticante del ballo.
Ad un’analisi semantica più profonda dall’immagine possiamo anche desumere l’ambiente di riferimento del Cappiello, borghese o altoborghese, infatti rispetto alle donne del Lautrec, popolane, ballerine e chansonneuses, cocottes, abitanti dei bassi fondi meno patinati della città, la rossa del Cappiello pare giungere a noi da una serata danzante al caffè Terminus piuttosto che da un bordello di Montmartre, anche se il capello lasciato incurantemente sciolto…
Stilisticamente possiamo notare alcuni elementi innovativi ed interessanti soprattutto nel modo di pubblicizzare l’articolo: il centro della scena è occupato dalla figura danzante della donna persa nell’ebbrezza estatica donata dal consumo dell’Absinthe Ducros Fils; la dama emerge su un fondo scuro ed uniforme, la bottiglia rimane quasi a margine della scena anche se posta sapientemente in alto a sinistra dell’immagine, quindi sia in direzione di lettura -dove l’occhio sicuramente per abitudine cadrà- sia posta a sovrastare il resto della composizione, sorta di divinità laica dalla quale discende la felicità dell’ebbrezza.
La scritta, realizzata in giallo, quasi un flash si che si abbatte sull’uniformità del rosso (colori legati alla gioia e la passione) e che sembra illuminare con un leggero lucore sia la base della bottiglia, sia i capelli della ragazza, utilizza un carattere “bastone” non allineato, anch’esso in costante fluttuazione, nessun eccesso di formalità quindi, ma puro divertissement.
Il complesso che ne risulta ci spinge verso una sorta di immaginario di disarticolamento comportamentale più che al prodotto stesso, in una specie di subliminalità ante litteram che lega il mondo dell’absinthe, specificatamente quelo del Ducros, a momenti di voluttà e spensieratezza, quindi il fisico e l’immateriale che si toccano e compenetrano; quello che Cappiello vuol generare con la sua immagine non è tanto il ricordo dell’immagine di un etichetta, ma il richiamo ad un immaginario preciso rappresentato dall’absinthe e particolrmente dall’absinthe pubblicizzato.
Sicuramente un metodo molto moderno di fare pubblicità, come non correre con la memoria ad alcune classiche pubblicità, venute ampiamente mezzo secolo dopo, di Armando Testa?
Nel 1903 vede la luce la pubblicità per l’Absinthe “Gempp Pernod”; anche in questo caso il riferimento all’iconografia lautrecchiana dei caffè chantants è evidente, l’attenzione è sempre focalizzata sull’immagine femminile al centro della scena, la figura sembra spingersi frettolosamente oltre il proscenio in una frenesia molto simile a quella del cartellone precedente, il suo sorriso ammiccante sembra invitarci a seguirla verso sconosciuti lidi nei quali l’unica certezza è l’Absinthe Gempp, indicato con delicatezza come a suggerire il segreto di tanta spensieratezza.
I colori sono il solito rosso ed il giallo, questa volta invertiti d’ordine.
I toni non sono scelti a caso e non a caso ritornano, il giallo simboleggia la felicità, il sole, la spensieratezza, l’estate e, perché no, l’arte dell’esistenza (ma anche la transizione verso l’autunno, soprattutto vista la vicinanza del Blu…), mentre il rosso rimanda all’energia, alla passione, alla vitalità; il vestito, quasi una nuvola, è blu, colore secondo Goethe complementare del giallo « Il giallo è una luce che è stata attenuata dalle tenebre; il blu è un’oscurità indebolita dalla luce. » il che rimanda alla transitorietà dell’attimo da cogliere che in un battito d’ali può finire insomma, tutta l’immagine, come la precedente, nella sua apparente semplicità nasconde uno studio attento e approfondito della dinamicità dei corpi, delle teorie psicologiche sui colori, della scrittura.
Il 1905 vede la comparsa della sua ultima litografia pubblicitaria legata all’Absinthe, si tratta dell’affiche per l’Edouard Pernot.
In questa immagine possiamo notare alcune novità rispetto alle due precedenti, sia a livello compositivo che riguardo al contesto di riferimento della pubblicità.
Ci troviamo innanzi ad una composizione più complessa, che per la prima volta rappresenta due individui in un rapporto dialogico/allegorico; un uomo ed una donna, seduti ad un tavolo, lei che degusta il suo Absinthe quasi persa nel bicchiere, e lui che la osserva: anche in questo caso Cappiello utilizza il contesto e l’impatto della psicologia dei personaggi per fare pubblicità al prodotto che, pur essendo presente in due frangenti, nella figura della bottiglia e nel bicchiere, è comunque marginalizzato rispetto ai volti delle figure che occupano il centro dell’opera; i due visi sono in rapporto ambiguamente dialogico, quello maschile, messo in risalto dal bianco incorniciato dal nero del cappello e del colletto della giacca, ha un’espressione che a prima vista può sembrare di contentezza in relazione al piacevole momento vissuto ma acquisisce un significato differente se messo in relazione al volto della dama, anch’esso giocato sul contrasto bianco/nero.
Immersi nel solito giallo, del cui significato abbiamo accennato poco sopra, assistiamo ad una scena implicitamente impregnata d’eros, il volto quasi da satiro dell’uomo, nel quale si fa evidente il riferimento all’opera di Lautrec -e più in generale al comune infatuamento che molti artisti del periodo ebbero per la “Japonaiserie”- che in una smorfia di compiacenza avvolge nel suo sguardo pieno di cupidigia la sua commensale, l’occhio strizzato, il sorrisetto lubrico, il mento proteso verso la figura femminina; anche la dama, di par suo, pare avvolta in una sorta d’estasi sensoriale, l’occhio languido, la bocca socchiusa, il sopracciglio levato. Il rosso è presente sia nella decorazione del cappello, che si protende verso la figura maschile, sia nella di lui cravatta, che occhieggia dal soprabito.
Il complesso rappresenta la voluttà, il desiderio e l’appagamento, che nel determinato ambito commerciale simboleggia ciò che può far raggiungere l’Absinthe Edouard.
Cappiello, pur operando al principio dell’epopea del design pubblicitario e riprendendo alcuni elementi già codificati da altri suoi contemporanei, sviluppa un linguaggio consapevolmente assai moderno incentrato su quello che oggi nell’ambito pubblicitario viene chiamato “branding”; cogliendo “lo spirito del tempo” e del contesto cui si riferisce (parziale e lontano dal rappresentare la complessità socio/culturale della fine del diciannovesimo secolo) è riuscito ad elaborare un suo linguaggio che pare frutto di studio accurato degli elementi -colori, movimento, composizione- ben differente della verve creativa ed esplosiva, vitalista, se vogliamo più istintiva, del citato Lautrec, ma comunque ben funzionale allo scopo cui la cartellonistica pubblicitaria era, ed è votata.
Marco Tonarelli per L’Académie d’Absomphe